L’arte della guerra
Il vero impatto del «Pentagono italiano»
Manlio Dinucci
Gli
abitanti del quartiere di Centocelle, a Roma, protestano a ragione per
l’impatto del costruendo Pentagono italiano sul parco archeologico e la sua
area verde (il manifesto, 29 ottobre). C’è però un altro impatto,
ben più grave, che passa sotto silenzio: quello sulla Costituzione italiana.
Come
abbiamo già documentato sul manifesto (7 marzo), il progetto di riunire i vertici di tutte le forze
armate in un’unica struttura, copia in miniatura del Pentagono
statunitense, è parte organica della «revisione
del modello operativo delle Forze armate», istituzionalizzata dal «Libro Bianco
per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti.
Esso
sovverte le basi costituzionali della Repubblica italiana, riconfigurandola
quale potenza che interviene militarmente nelle aree prospicienti il
Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri «interessi vitali» economici e strategici, e ovunque
nel mondo – dal Baltico all’Afghanistan – siano in gioco gli interessi dell’Occidente
rappresentati dalla Nato sotto comando Usa.
Funzionale
a tutto questo è la Legge quadro del 2016, che istituzionalizza le missioni
militari all’estero (attualmente 30
in 20 paesi), finanziandole con un fondo del Ministero
dell’economia e delle finanze.
Cresce così la spesa militare reale che, con queste e altre
voci aggiuntive al bilancio della Difesa, è salita a una media di circa 70
milioni di euro al giorno, che dovranno arrivare a circa 100 milioni al giorno
come richiesto dalla Nato.
La riconfigurazione
delle Forze armate in funzione offensiva richiede sempre più costosi armamenti
di nuova generazione. Ultimo acquisto il missile statunitense Agm-88E Aargm, versione ammodernata
(costo 18,2 milioni di dollari per 25 missili) rispetto a precedenti modelli
acquistati dall’Italia: è un missile a medio raggio lanciato dai
cacciabombardieri per distruggere i radar all’inizio dell’offensiva, accecando
così le difese del paese sotto attacco.
L’industria produttrice, la Orbital Atk,
precisa che «il nuovo missile è compatibile anche con l‘F-35», il caccia della
statunitense Lockheed Martin alla cui produzione l’Italia partecipa con
l’impianto Faco di Cameri gestito da Leonardo (già Finmeccanica), impegnandosi
ad acquistarne 90. Il primo F-35 è arrivato nella base di Amendola il 12
dicembre 2016, facendo dell’Italia il primo paese a ricevere, dopo gli Usa, il
nuovo caccia di quinta generazione che sarà armato anche della nuova bomba
nucleare B61-12.
L’Italia, però, non solo
acquista ma produce armamenti. L’industria militare viene definita nel Libro Bianco «pilastro
del Sistema Paese»
poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al
riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti
dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione».
I
risultati non mancano: Leonardo è salita al nono posto nella classifica delle
100 maggiori industrie belliche del mondo, con vendite annue di armamenti per
circa 9 miliardi di dollari nel 2016. Agli inizi di ottobre Leonardo ha annunciato
l’apertura di un altro impianto in Australia, dove produce armamenti e sistemi
di comunicazione per la marina militare australiana.
In
compenso, per spostare sempre più la produzione sul settore militare, che
fornisce oggi a Leonardo l’84% del fatturato, sono state vendute alla
giapponese Hitachi due aziende Finmeccanica, Ansaldo Sts e Ansaldo Breda,
leader mondiali nella produzione ferroviaria.
Su
questo «pilastro del Sistema Paese» si edifica, con fondi stornati dal budget della Legge di
stabilità, il Pentagono italiano, nuova sede del Ministero della Guerra.
(il manifesto, 31 ottobre 2017)
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