I distruttori della Libia ora «per la Libia»
[di Manlio Dinucci]
Dopo il
fallimento di Emmanuel Macron nella ricerca di una soluzione alla crisi libica,
ora è la volta di Giuseppe Conte di fare un tentativo. Roma è favorita rispetto
a Parigi, dal momento che gode del sostegno della Casa Bianca. Tuttavia, ci
sono poche possibilità che si pervenga a un qualsivoglia risultato: le “buone
fatine” di oggi non sono altro che i lupi che ieri hanno divorato la Libia.
Una mezzaluna (simbolo dell’islamismo) raffigurata come
uno stilizzato emisfero che, affiancato da una stella e le parole «for/with
Libya» (per/con la Libia), rappresenta «un mondo che vuole porsi dalla parte
della Libia»: è il logo della «Conferenza per la Libia» promossa dal governo
italiano, come evidenzia il tricolore nella parte inferiore della
mezzaluna/emisfero.
La Conferenza internazionale si
concluderà oggi a Palermo, in quella Sicilia che sette anni fa è stata la
principale base di lancio della guerra con cui la Nato sotto comando Usa ha
demolito lo Stato libico. Essa veniva iniziata finanziando e armando in Libia
settori tribali e gruppi islamici ostili al governo di Tripoli e infiltrando
nel paese forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani camuffati da
«ribelli libici».
Veniva quindi lanciato, nel marzo
2011, l’attacco aeronavale Usa/Nato durato 7 mesi. L’aviazione effettuava 30
mila missioni, di cui 10 mila di attacco, con impiego di oltre 40 mila bombe e
missili. L’Italia, per volontà di un vasto arco politico dalla destra alla sinistra,
partecipava alla guerra non solo con la propria aeronautica e marina, ma
mettendo a disposizione delle forze Usa/Nato 7 basi aeree: Trapani, Sigonella,
Pantelleria, Gioia del Colle, Amendola, Decimomannu e Aviano.
Con la guerra del 2011 la Nato
demoliva quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte
all’Italia, aveva raggiunto, pur con notevoli disparità interne, «alti livelli
di crescita economica e sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa
Banca Mondiale), superiori a quelli degli altri paesi africani. Lo testimoniava
il fatto che avevano trovato lavoro in Libia circa due milioni di immigrati,
per lo più africani.
Allo stesso tempo la Libia avrebbe
reso possibile, con i suoi fondi sovrani, la nascita in Africa di organismi economici
indipendenti e di una moneta africana. Usa e Francia – provano le mail della
segretaria di stato Hillary Clinton – si erano accordati per bloccare anzitutto
il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e
al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane.
Demolito lo Stato e assassinato
Gheddafi, nella situazione caotica che ne è seguita è iniziata, sul piano
internazionale e interno, una lotta al coltello per la spartizione di un enorme
bottino: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale;
l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più
prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza
geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti
all’estero dallo Stato libico, «congelati» nel 2011 nelle maggiori banche
europee e statunitensi, in altre parole rapinati.
Ad esempio, dei 16 miliardi di
euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio e Lussemburgo, ne
sono spariti oltre 10. «Dal 2013 – documenta la Rtbf (radiotelevisione
francofona belga) – centinaia di milioni di euro, provenienti da tali fondi,
sono stati inviati in Libia per finanziare la guerra civile che ha provocato
una grave crisi migratoria». Molti immigrati africani in Libia sono stati
imprigionati e torturati dalle milizie islamiche.
La Libia è divenuta la principale
via di transito, in mano a trafficanti e manovratori internazionali, di un
caotico flusso migratorio che nel Mediterraneo ha provocato ogni anno più
vittime delle bombe Nato del 2011. Non si può tacere, come hanno fatto perfino
gli organizzatori del controvertice di Palermo, che all’origine di questa
tragedia umana c’è la guerra Usa/Nato che sette anni fa ha demolito in Africa un
intero Stato.
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