Gli occhi…
di Martina Randazzo
Siamo trecento. E no, non
c'è posto per tutti. Stiamo ammassati gli uni sugli altri, senza la possibilità
di muoversi, di sgranchire le gambe, ormai da quattro giorni. Questa mattina ho
assistito impotente alla quarta inesorabile alba e il sole è tornato a
bruciarci la pelle, anche se sembra volere incendiare fino alle interiora. Non
mi immaginavo che avrei dovuto sopportare di nuovo tutto questo quando ci siamo
imbarcati a Zuara, in quella calda e angosciante notte di agosto, con ancora le
immagini del centro di detenzione di Dhar-el-Jebel impresse nella mente e negli
occhi.
Devono sembrare davvero
stanchi i miei occhi adesso, a malapena riesco a tenerli aperti per il bruciore
del sale sulle ciglia che ho ricevuto con le onde durante la notte.
Ne hanno viste tante, i miei occhi scuri come la pece.
Ripenso alla guerra in
Eritrea, che sembrava non finire più, dopo anni e anni di paura costante giorno
e notte di venire uccisi e perdere tutto quello che si ha. Vivevo con la mia
famiglia e nessuno nel mio paese sapeva il motivo della guerra, o chi la stesse
combattendo. Mi deportarono in Libia il giorno stesso in cui casa mia fu rasa
al suolo e i miei cari uccisi perchè la linea di confine si era spostata, e non
potevamo permetterci esitazioni nel lasciare tutto quello che avevamo con
fatica costruito. Non potevamo permetterci esitazioni nel vedere la nostra casa
distrutta per colpa di una stupida e inutile guerra. lo ero a prendere l'acqua
alla fonte a due ore di cammino, con la mia sorellina minore, che non è
arrivata viva al centro.
Di lei non ho neanche un
ricordo materiale, una foto.
Dopo ore e ore di
estenuante viaggio nel retro di un furgone, sono arrivata sola al centro di
detenzione i Dhar-el-Jebel. Si, in un centro di detenzione, perchè io e altri
compaesani a me sconosciuti siamo stati obbligati a convivere per cinque anni
con criminali di tutti i tipi, come stupratori, violentatori e pedofili, solo
per fare alcuni esempi, con l'unico crimine commesso di vivere in una zona di
guerra. Con ancora le immagini di casa mia distrutta, dei volti dei miei cari
tumefatti e gonfi per le botte inflitte senza pietà dai soldati per farli stare
zitti e non creare problemi, con le immagini del mio paese distorte a causa
delle lacrime che mi solcavano silenziosamente il viso e del corpo senza vita
della mia sorellina minore gettato sgraziatamente in una fossa comune, ho
vissuto per cinque anni con il terrore che accadesse di nuovo, di perdere
ancora una volta tutto quello che avevo, quel poco che mi era rimasto: la mia
brandina sgangherata, i miei "vicini di letto" con cui ogni tanto
avevo il coraggio di azzardare due parole, il vestito di mia madre, unico
ricordo materiale di casa, che indossavo al momento dell'arrivo, e l'unica cosa
che mi dava la forza di andare avanti giorno dopo giorno, il mio fidanzato. E'
morto durante il tragitto, stremato dalla fatica e dal caldo e dalla malattia
che aveva contratto gli ultimi giorni prima della nostra fuga dal centro di
detenzione, di cui nessuno sembrava essersi curato più di tanto. Una malattia
letale e dolorosa: mi era stato detto che si era ammalato di ebola.
L'unica speranza che mi
ha convinta a continuare il viaggio fino ad adesso senza di lui è suo figlio,
che ancora porto in grembo, su questo barcone pieno di feci e carne umana
malata, circondata da sofferenza e corpi tremanti e malnutriti, stremati almeno
quanto il mio. Ho deciso di provare a dare a mio figlio il futuro che io non
potrò avere a causa di quello che ho vissuto, dei fantasmi del mio passato,
delle immagini che per sempre mi tormenteranno il sonno e mi freneranno
dall'essere felice senza tutte le persone che ho perso e che ho amato con tutta
me stessa, anche se il mio amore non ha potuto niente contro la crudeltà e la
brutalità dell'uomo.
Su questo barcone non
sono stata trattata meglio di altre donne, nonostante io debba sfamare due
corpi, nonostante io debba rimanere in vita anche per un altro esserino che si
sta formando dentro di me. Invece sono stata vittima dei peggiori
maltrattamenti e non mangio ormai da due giorni, perchè i miei
"compagni" di sventura pensano che sia uno spreco darmi del cibo, in
quanto sono certi che morirò prima degli altri. Sono veramente sola, su questa
barca circondata da mare a perdita d'occhio, senza nessuno a cui affidarmi,
senza braccia tra le quali ripararmi o alle quali chiedere affetto.
Si avverte adesso un
rumore di ingranaggi, violento e forte, sotto di noi. Nessuno capisce, i
bambini, quelli che ancora sono rimasti in vita, urlano, si divincolano,
strillano fino a perdere il fiato, come se sapessero cosa ci aspetta. Gli
scafisti ci urlano contro che siamo troppi, che non sopravviveranno a causa
nostra. Ho veramente paura. Gridano l'uno all'altro tra di loro che devono
alleggerire il barcone o nessuno sopravviverà. Uno di loro prende la decisione
che questo lato è il più affollato, e che bisogna alleggerire la barca. Bisogna
alleggerire la barca.
Senza neanche rendermene
conto mi ritrovo presa per gli arti e tirata su, di peso, delle mani forti mi
stringono e mi fanno male, fino quasi a togliermi il sangue dalle vene o
rompermi i tendini. Il cuore sembra esplodere di battiti dentro il mio esile
petto. Sento il vuoto sotto di me: sto precipitando in mare. E' fredda l'acqua,
gelida sulla mia pelle bruciata dal sole: adesso mi entra nei polmoni e non
riesco a respirare, non riesco a tornare sul barcone, nessuno mi aveva
insegnato a nuotare, non sarebbe mai servito in Eritrea. Senza forze,
abbandonata da tutti e poco cosciente, vedo, contro la luce del sole, il
barcone che sembra piovere corpi inermi come il mio: nessuno sa nuotare, non
sarebbe servito saperlo al nostro paese natale, a cui ci hanno brutalmente
strappato.
Contro la luce del sole
vedo poi il barcone stesso rivoltarsi e tutti, tutti, tutti cadere in mare. Le
sottospecie di esseri umani, ormai privati della loro umanità, che mi hanno
provocato i lividi che ho sul corpo, che mi hanno sacrificata senza pietà per
la loro sola sopravvivenza, adesso sono nella mia stessa condizione, sono
sommersi da litri e litri di acqua salata che brucia gli occhi, le ferite e i
polmoni. Moriranno tutti, nelle acque del Mediterraneo, come moriremo io e mio
figlio, annegati per un fato avverso non voluto da noi ma dagli scafisti,
inumane bestie che hanno voluto mettere a rischio anche la loro stessa vita per
il piacere del lucro. Nella mia mentalità di ragazza, di donna, di quasi mamma,
nei miei occhi stanchi per tutto quello che hanno visto e subìto, tutto questo
è insensato e scellerato; vedere i miei esecutori e compagni di viaggio
trascinati giù dal barcone che precipita negli abissi è ancora più crudele,
perchè non riesco ad odiarli per aver deciso consciamente di togliermi la vita.
Penso questo, mentre
l'acqua mi riempie i polmoni fino a farli scoppiare e vengo trascinata nel buio
anche io, mentre le mie lacrime amare non solcano più il mio viso e si
confondono con il sale. Chissà chi ha veramente deciso per me e per mio figlio
questo destino, senza darci la possibilità di vedere la bellezza della vita, di
vivere con occhi diversi, con occhi nuovi, questa sofferenza del vivere che non
sembra la peggiore se vista da chi se ne sta andando ed è stato privato di
averla.
Avrei solo voluto
concederti di conoscere quanto è bello vivere, svegliarsi ogni mattina senza il
terrore di morire, figlio mio.
Avrei voluto concederti
un futuro, una vita diversa dalla mia, invece stai morendo come tua madre.
Mi dispiace.
Martina Randazzo