RUSSIA E CINA CONTRO L’IMPERO DEL DOLLARO
[13 set 2017 —Manlio Dinucci]
Un vasto
arco di tensioni e conflitti si estende dall’Asia orientale a quella centrale,
dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America latina. I «punti caldi»
lungo questo arco intercontinentale – Penisola coreana, Mar Cinese Meridionale,
Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno
storie e caratteristiche geopolitiche diverse, ma sono allo stesso tempo
collegati a un unico fattore: la strategia con cui «l’impero americano
d’Occidente», in declino, cerca di impedire l’emergere di nuovi soggetti
statuali e sociali.
Che cosa
Washington tema lo si capisce dal Summit dei Brics (Brasile, Russia, India,
Cina, Sudafrica) svoltosi il 3-5 settembre a Xiamen in Cina. Esprimendo «le
preoccupazioni dei Brics sull’ingiusta architettura economica e finanziaria
globale, che non tiene in considerazione il crescente peso delle economie
emergenti», il presidente russo Putin ha sottolineato la necessità di «superare
l’eccessivo dominio del limitato numero di valute di riserva».
Chiaro
il riferimento al dollaro Usa, che costituisce quasi i due terzi delle riserve
valutarie mondiali e la valuta con cui si determina il prezzo del petrolio,
dell’oro e di altre materie prime strategiche. Ciò permette agli Usa di
mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla
reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale
valuta globale.
Lo yuan
cinese è però entrato un anno fa nel paniere delle valute di riserva del Fondo
monetario internazionale (insieme a dollaro, euro, yen e sterlina) e Pechino
sta per lanciare contratti di acquisto del petrolio in yuan, convertibili in
oro.
I Brics
richiedono inoltre la revisione delle quote e quindi dei voti attribuiti a
ciascun paese all’interno del Fondo monetario: gli Usa, da soli, detengono più
del doppio dei voti complessivi di 24 paesi dell’America latina (Messico
compreso) e il G7 detiene il triplo dei voti del gruppo dei Brics.
Washington
guarda con crescente preoccupazione alla partnership russo-cinese:
l’interscambio tra i due paesi, che nel 2017 dovrebbe raggiungere gli 80
miliardi di dollari, è in forte crescita; aumentano allo stesso tempo gli
accordi di cooperazione russo-cinese in campo energetico, agricolo,
aeronautico, spaziale e in quello delle infrastrutture.
L’annunciato
acquisto del 14% della compagnia petrolifera russa Rosneft da parte di una
compagnia cinese e la fornitura di gas russo alla Cina per 38 miliardi di metri
cubi annui attraverso il nuovo gasdotto Sila Sibiri, che entrerà in funzione
nel 2019, aprono all’export energetico russo la via ad Est mentre gli Usa
cercano di bloccargli la via ad Ovest verso l’Europa.
Perdendo
terreno sul piano economico, gli Usa gettano sul piatto della bilancia la spada
della loro forza militare e influenza politica. La pressione militare Usa nel
Mar Cinese Meridionale e nella penisola coreana, le guerre Usa/Nato in
Afghanistan, Medioriente e Africa, la spallata Usa/Nato in Ucraina e il
conseguente confronto con la Russia, rientrano nella stessa strategia di
confronto globale con la partnership russo-cinese, che non è solo economica ma
geopolitica.
Vi
rientra anche il piano di minare i Brics dall’interno, riportando le destre al
potere in Brasile e in tutta l’America latina. Lo conferma il comandante dello
U.S. Southern Command, Kurt Tidd, che sta preparando contro il Venezuela
l’«opzione militare» minacciata da Trump: in una audizione al senato, accusa
Russia e Cina di esercitare una «maligna influenza» in America latina, per far
avanzare anche qui «la loro visione di un ordine internazionale alternativo».
(il
manifesto, 12 settembre 2017)
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